Il concetto di “Indice glicemico” (IG) in senso stretto appartiene alla biochimica clinica ed esprime il rapporto tra la risposta iperglicemizzante (aumento del glucosio nel sangue) di un alimento e quella di una sostanza di riferimento standard (generalmente il glucosio, talvolta il pane bianco).
L’IG misura quindi la capacità di una determinata sostanza, una volta ingerita, di alzare la glicemia (in velocità, quantità e durata nel tempo) rispetto a uno standard di riferimento che è il glucosio puro.
In pratica, dopo che si ingerisce una quantità stabilita di glucosio, la glicemia si innalza per un certo tempo; poi si abbassa grazie al rilascio di insulina da parte del pancreas. Se si misura questo andamento e lo si riporta su un grafico si ottiene una curva a forma di campana in cui sono importanti sia i valori massimi raggiunti (picco), sia l’andamento temporale (pendenza).
L’area di questa campana è misurabile: si definisce “area sotto la curva”, in inglese AUC = Area under the Curve.
L’IG di una certa sostanza o alimento è il rapporto percentuale tra l’area misurata in seguito alla sua ingestione e quella ottenuta somministrando una quantità equivalente di glucosio (o pane bianco o altro standard):
IG= (Area Alimento / Area Glucosio) × 100
In generale l’IG si misura somministrando 50 grammi del carboidrato in studio e misurando l’area della curva a campana della glicemia nel tempo dal momento della somministrazione (tempo 0) a due (o più) ore dopo. Nel caso del glucosio, che è il riferimento standard, il peso utilizzato per l’analisi è di 50 grammi. Per ogni altro alimento da esaminare il peso deve corrispondere a una quantità di alimento che abbia un contenuto teorico di carboidrati equivalente a 50 grammi di glucosio: es. le carote contengono circa il 7,6 % di zuccheri (7,6 g di zuccheri sono contenuti in 100 g di carote crude): per ricavare l’IG delle carote si deve ingerirne una quantità equivalente ( e quindi paragonabile) a 50 grammi di zuccheri, cioè 6,6 (cioè 50 / 7,6) x 100 = 660 grammi.
I valori di IG correntemente attribuiti alle diverse sostanze sono quindi frutto di sperimentazioni pratiche su campioni di volontari (vedi oltre: Metodo di determinazione del IG degli alimenti) ma dal significato piuttosto teorico.
Nella pratica infatti l’IG di una sostanza può scostarsi notevolmente dal valore sperimentale in quanto varia notevolmente in relazione a diversi fattori che non sono ben standardizzabili come la preparazione dei cibi, la maniera con cui sono masticati, la velocità di ingestione etc. (vedi “Fattori di variabilità dell’Indice Glicemico”).
Per esempio in generale un aumento del tempo di cottura fa aumentare l’IG di un alimento.
L’argomento è stato molto studiato e molte analisi sono state eseguite sulle sostanze e sugli alimenti principali. Esistono tabelle che riportano i valori di IG di molti alimenti , classificati in base al loro effetto sulla glicemia paragonato con una sostanza standard (pane bianco o glucosio).
L’IG degli alimenti è stato usato – talvolta erroneamente – per svariate applicazioni quali il controllo del diabete, le diete per gli sportive, il controllo dell’appetito etc.
Metodo di determinazione del IG degli alimenti
Secondo la standard internazionale per determinare l’IG di un “alimento test” è necessario utilizzare un campione di almeno 10 soggetti (persone volontarie) e ricavare un valore medio.
La determinazione si svolge in 3 fasi.
Fase 1:
- I 10 soggetti ingeriscono al tempo 0 “l’alimento test” da esaminare nella quantità corrispondente al contenuto (teorico) di 50 grammi di carboidrati disponibili, cioè digeribili: es. se l’alimento contiene teoricamente 10 g di glucidi per 100 g di alimento, la quantità di alimento da ingerire sarà di 500 g;
- per ogni soggetto si misura la glicemia ogni 20 minuti per un periodo di due ore;
- per ogni soggetto si disegna la curva dell’andamento glicemico;
- per ogni soggetto si misura l’area sottostante la curva della glicemia (Glucose AUC = Blood Glucose Area Under the Curve).
Fase 2 (in un’altra occasione, lontana dalla Fase 1):
- gli stessi 10 soggetti ingeriscono 50 grammi di glucosio (cioè la stessa quantità contenuta nell’alimento da testare nella Fase 1);
- per ogni soggetto si misura la glicemia ogni 20 minuti per un periodo di due ore;
- per ogni soggetto si disegna la curva dell’andamento glicemico;
- per ogni soggetto si misura l’area sottostante la curva della glicemia (Glucose AUC = Blood Glucose Area Under the Curve).
Fase 3 (calcolo):
- per ogni soggetto si ottengono due valori di Glucose-AUC:
- Glucose-AUC dell’alimento test (A)
- Glucose-AUC del glucosio (G)
- Per ogni soggetto si calcola il rapporto A / G e si ottiene un IG;
- si calcola il valore medio dei 10 soggetti e si ottiene l’Indice Glicemico finale per l’alimento test;
- si moltiplica per 100 e si ottiene il valore IG percentuale rispetto al glucosio.
I fattori di variabilità dell'Indice Glicemico
(da: http://www.montignac.com/it/i-fattori-di-modifica-dell-indice-glicemico/)
La grande maggioranza dei carboidrati abitualmente consumati dall'uomo è costituita da glucidi complessi, composti essenzialmente da amido. Gli alimenti che contengono amido sono i cosiddetti alimenti amilacei e si suddividono in quattro famiglie:
Le diverse famiglie di amilacei |
|||
Cereali |
Tuberi |
Leguminacee | Frutta |
Avena Grano duro Grano tenero Mais Miglio Orzo Riso Segale Sorgo |
Igname Manioca Patata Patata dolce Tania Taro |
Fagioli Piselli Ceci Lenticchie Fave |
Banane Mango Mele |
Tutti gli amidi, per essere assorbiti e passare nella circolazione sanguigna devono essere trasformati in glucosio per azione degli enzimi digestivi (in particolare le alfa-amilasi). La digestione inizia in bocca con la masticazione e prosegue nell'intestino tenue, dopo il passaggio nello stomaco.
L'aumento della glicemia testimonia il livello di assorbimento del glucosio e, quindi, la digeribilità dell'amido. Questo passaggio fisiologico nell’organismo – variabile da alimento ad alimento - è espresso dall’IG di ogni alimento.
L’IG di un alimento è il risultato di numerosi parametri, di cui bisogna tenere conto nelle scelte nutrizionali.
La variabilità della risposta glicemica alla assunzione di alimenti contenenti amidi è legata a diversi fattori:
- composizione degli alimenti (amidi, proteine, grassi, fibre);
- rapporto amilosio/amilopectina;
- Tipo di trattamento termico, fisico e chimico subito dall'alimento
- lavorazione industriale
- macinatura (dimensione delle particelle di amido)
- tempi e modi di cottura
- Il grado di maturazione e di invecchiamento dell’alimento (es. frutta o verdura);
- composizione del pasto completo in cui sono inseriti i singoli alimenti
- Composizione in amido degli alimenti e contenuto di proteine e di fibre. Per alcuni glucidi, il contenuto naturale di proteine può essere all'origine di una ridotta idrolizzazione (digestione) degli amidi e di conseguenza di una riduzione dell’IG. Questo vale in particolare per i cereali, soprattutto nella pasta alimentare. Fattori che riducono l’IG degli alimenti amilacei sono:
- La presenza di glutine che rallenta l'azione delle amilasi digestive e limita l'assorbimento di glucosio.
- Il contenuto di fibre alimentari che può costituire una barriera contro l'azione delle amilasi, e ridurre così ulteriormente l'assorbimento di glucosio. Sono principalmente le fibre solubili (che si ritrovano nella maggior parte dei casi nelle leguminacee, ma anche nell'avena) a poter rivestire un ruolo diretto o indiretto sulla riduzione dell'assorbimento intestinale del glucosio, e far così abbassare l’IG dell'amido in oggetto.
- Rapporto amilosio/amilopectina. Il granulo di amido è costituito di due tipi di componenti molecolari: l'amilosio e l'amilopectina, associati a lipidi, proteine, fibre, micronutrimenti (vitamine, sali minerali…). L’amilosio è digerito più lentamente dell’amilopectina (quindi IG più basso). Gli alimenti con un rapporto amilosio / amilopectina elevato hanno in generale un IG più basso. Gli amidi di cereali contengono tra il 15 e il 28% di amilosio. Alcune varietà di mais ne contengono meno dell'1% (es. mais “Waxy” o mais ceroso) molto utilizzato nell'industria alimentare come ispessente, riportato in etichetta come “amido di mais”). Altre varietà di mais che ne contengono dal 55 al 80% sono poco coltivate per lo scarso rendimento. Gli amidi dei tuberi (chiamati anche fecole), per esempio la fecola di patate, hanno un tenore di amilosio molto più basso (dal 17% al 22%) quindi avranno un IG elevato. Gli amidi delle leguminacee (lenticchie, fagioli secchi, ceci...) sono al contrario molto più ricchi di amilosio (dal 33 al 66%) e avranno un IG più basso.
Tipo di trattamento termico e chimico dell'alimento. L'idratazione e il calore aumentano l’IG di un alimento.
- Gelatinizzazione. Il riscaldamento dell’amido aumenta l’IG. Provoca infatti la cosiddetta “gelatinizzazione” per la presenza di amilopectina. Più un amido si gelatinizza più facilmente è idrolizzato dagli enzimi digestivi dell'amido (alfa-amilasi), più rapidamente si trasforma in glucosio, più fa salire la glicemia (IG elevato). La patata, ricchissima di amilopectina, ha un IG alto. Le lenticchie, invece, ricche di amilosio, hanno un IG molto basso. La carota cruda ha un indice glicemico pari a 20; bollita in acqua, il suo indice glicemico sale a 50, per via della gelatinizzazione del suo amido. Alcuni processi industriali aumentano al massimo la gelatinizzazione (es. purea di patate istantanea, cornflakes etc.) aumentando notevolmente l’IG (85 per i cornflakes, 95 per la purea in fiocchi, etc.). Anche i pop-corn e il riso soffiato, subendo l’esplosione del chicco, aumentano del 15-20 % l’IG originario.
- Pastificazione. La “pastificazione” riduce l'IG. Nel caso del grano duro la pastificazione riduce l'idratazione dell'amido costituendo una pellicola protettiva, che contribuisce a rallentare la gelatinizzazione degli amidi durante la cottura. Questo processo vale per gli spaghetti e per alcuni tipi di tagliatelle, ma non si applica invece ai ravioli, alle lasagne o alla pasta fresca il cui indice glicemico è molto più alto, pur contenendo la stessa farina di grano duro. Partendo da una stessa farina si possono quindi ottenere prodotti con indici glicemici molto diversi (ravioli 70, spaghetti 40).
- Tipo di cottura. Nel caso delle paste la cottura che precede il consumo modifica ulteriormente l’IG finale. La cottura al dente (da 5 a 6 minuti) consente di conservare l’IG degli spaghetti al livello più basso, mentre una cottura prolungata a 15-20 minuti provoca un aumento dell'IG per via dell'accelerazione della gelatinizzazione dell'amido. La cottura a vapore, delicata, o stufata, con un potere d'idratazione basso, se paragonata alla cottura per immersione, provoca una minima gelatinizzazione.ù
- La retrogradazione: il processo inverso della gelatinizzazione. Dopo la cottura che provoca gelatinizzazione, l'amido si modifica nuovamente raffreddandosi. In pratica si verifica il ritorno (più o meno importante) alla struttura molecolare precedente. Questo fenomeno prende il nome di retrogradazione e aumenta con il tempo e con la riduzione della temperatura.
- La retrogradazione non provoca una reversibilità totale della gelatinizzazione, ma consente di ridurre l'IG.
- Il fenomeno è tanto più evidente quanto maggiore è la quantità di amilosio contenuta nell’alimento.
- L’aggiunta di lipidi a un amido che è stato oggetto di gelatinizzazione provoca un rallentamento della retrogradazione.
- Un amido retrogradrato che viene riscaldato perde parte del suo potere di gelatinizzazione. Una frazione (il 10% circa) dell'amido retrogradato diventa termoresistente, il che porterebbe a dimostrare che il riscaldamento di un glucide dopo la conservazione al freddo contribuirebbe a ridurne l’indice glicemico.
La prolungata conservazione a basse temperature (5°) di alimenti amilacei (es. piatti pronti sotto vuoto) agevola la retrogradazione. Gli spaghetti (anche raffinati) cotti al dente, o raffreddati e consumati in insalata, hanno un IG pari a 35 (più basso di quello degli spaghetti che è 40). Si ottiene lo stesso fenomeno lasciando seccare alcuni alimenti. Per esempio, più il pane è raffermo, più l'umidità si sposta verso l'esterno, agevolando così la retrogradazione dell'amido. Lo stesso accade quando si fa abbrustolire il pane. Una pagnotta prodotta con la stessa farina, a seconda che sia preparata fresca (e ancora calda), rafferma o tostata, non avrà lo stesso indice glicemico. Congelare una pagnotta fresca, poi scongelarla a temperatura ambiente, porta ad abbassare notevolmente il suo indice glicemico originale. Anche le lenticchie verdi fredde, (a maggior ragione se sono rimaste nel frigorifero per 24 ore) hanno un indice glicemico ancora più basso dello stesso prodotto appena cotto (tra 10 e 15).
L'amido allo stato originario (grezzo e naturale) non è presente solo negli alimenti crudi ma può persistere sotto questa forma dopo la cottura quando il contenuto di acqua del prodotto è stato localmente insufficiente per consentirne la gelatinizzazione. È quanto accade, in particolare, con la crosta del pane e i biscotti di tipo “pasta frolla”, dove la struttura granulare dell'amido persiste in parte dopo la cottura, diminuendone di conseguenza l'IG rispetto agli amidi che invece sono stati gelatinizzati (es. quello della mollica del pane).
- Il grado di maturazione e di invecchiamento. I frutti amilacei aumentano il loro IG in funzione del grado di maturazione in quanto, maturando, l’amido contenuto nel frutto si trasforma e diventa sempre meno resistente. Il fenomeno è particolarmente evidente nella banana (molto meno per la mela). Una banana acerba (verde) avrà un IG piuttosto basso (circa 40), mentre al termine della sua maturazione l'indice sarà molto più alto (65). Lo stesso effetto della maturazione è prodotto dalla cottura: l’IG di una banana verde cotta è più elevato. Anche la conservazione di alcuni alimenti, in particolar modo la patata, provoca un aumento dell'IG per via della trasformazione naturale dei loro amidi. Le patate conservate per diversi mesi hanno dunque un indice glicemico più alto rispetto alle patate novelle.
- La dimensione delle particelle. Dopo la macinatura e riduzione a farina di un amilaceo (es. cereale) è macinato più le particelle di amido sono sottili, più è favorita l'idrolizzazione delle molecole di amido con un conseguente innalzamento dell’IG rispetto all’alimento originario (es. la farina di riso ha un IG maggiore del riso originario). La farina bianca, prodotta dopo l’invenzione del mulino a cilindro verso il 1870, è sembrata un gran progresso, ma si è rivelata un impoverimento della qualità nutrizionale del pane: meno fibre, meno proteine e micronutrienti (vitamine, minerali, acidi grassi essenziali…), IG sempre più elevato in tutti gli alimenti di cui questa farina è uno dei principali componenti. Il grano e macinato a pietra, ridotto in particelle di grosse dimensioni, conservava per intero i componenti del chicco di grano («pane integrale»). L’IG risultava basso (tra 35 e 45).
Nutrienti |
Farina integrale per 100g |
Farina bianca (T55) per 100g |
Proteine |
12 g |
8 g |
Lipidi |
2.5 g |
1 g |
Glucidi |
60 g |
74 g |
Fibre |
10 g |
3 g |
Acqua |
15.5 g |
14 g |
Dimensione delle particelle |
Grossolana |
Sottile |
Indice Glicemico |
40 |
70 |
- C1. Composizione del pasto. Vedi oltre (Significato dell’Indice Glicemico)
Significato e limiti dell’Indice Glicemico
L'indice glicemico è un sistema di classificazione numerica utilizzato per misurare la velocità di digestione e assorbimento dei cibi contenenti carboidrati e il loro conseguente effetto sulla glicemia, cioè sui livelli di glucosio nel sangue. Un cibo con un punteggio alto dell'IG produce un grande picco momentaneo di glucosio dopo il suo consumo. Al contrario, un alimento con un basso indice glicemico provoca un'elevazione del glucosio nel sangue più lento e sostenuto.
L'indice glicemico è diventato un metodo per tentare di determinare quanto sano può essere un cibo.
Gli alimenti con un elevato IG contengono carboidrati rapidamente digeribili che producono un aumento molto rapido della glicemia (e successivamente della insulinemia) seguito da un calo altrettanto rapido (se il pancreas – che produce insulina - funziona bene).
Al contrario gli alimenti con un basso IG contengono carboidrati digeribili lentamente che producono un aumento della glicemia graduale e relativamente basso.
I vari alimenti sono stati classificati in una scala da 0 a 100 in base al IG. Esistono diverse classificazioni ma quelle più largamente accettate dividono gli alimenti in tre gruppi:
- IG basso: < 55
- IG medio: 55 - 70
- IG elevato: > 70
Il frequente consumo di cibi a elevato IG stimola il senso di fame; in situazioni in cui è utile contenere il consumo calorico sono da preferire Carboidrati a basso IG.
Al contrario invece, il recupero muscolare post esercizio fisico è favorito dal consumo di cibi ad altro IG.
Numerose recenti evidenze scientifiche raccomandano diete a basso indice glicemico sia per la gestione di diverse patologie (diabete, malattie infiammatorie ed autoimmuni) sia nel mantenimento del peso; tuttavia diversi sono i fattori che limitano l’impiego dell’Indice Glicemico come indicatore assoluto di buona alimentazione.
- Nella pratica, il pasto è quasi sempre composto da più alimenti con IG differenti tra loro. Pertanto l’effetto sull’innalzamento glicemico andrebbe considerato nella sua globalità e non per singolo alimento. Ad esempio un pasto ricco di verdure o alimenti integrali è in grado di abbassare l’IG complessivo del pasto stesso.
- Per la definizione stessa di Indice Glicemico si osserva che alimenti ad elevato IG, nella realtà possono provocare un innalzamento modesto della glicemia. Ad esempio le carote, che contengono piccolissime quantità di carboidrati (7,6 g ogni 100 gr di alimento) hanno di fatto un IG teorico di 100, uguale al glucosio, usato come standard di riferimento, ma la loro assunzione – nelle quantità abituali - determina un modesto incremento di glicemia. Ricordiamo infatti che il calcolo dell’IG viene fatto considerando la quantità di alimento che contiene 50 g di carboidrati (vedi sopra).
- L’innalzamento della glicemia dipende da diversi fattori soggettivi come i tempi di digestione, lo stato di salute del soggetto, etc. …
Per comprendere e valutare la risposta glicemica a un pasto, non è quindi sufficiente considerare soltanto un solo tipo di alimento introdotto.
L’IG va quindi considerato un indicatore importante ma da utilizzare con cautela per non essere tratti in inganno.
Il Carico Glicemico
Per quanto detto prima è evidente che l’IG da solo non basta per valutare l’effetto di un certo alimento sulla glicemia. Abbiamo visto il caso delle carote che hanno un alto IG, ma in realtà contengono una quantità bassissima di zuccheri e incidono pochissimo, alle quantità normalmente ingerite, sul picco glicemico post-prandiale.
Un indicatore più completo potrebbe essere il Carico Glicemico (CG) dei diversi alimenti che tiene conto anche della quantità di carboidrati presenti nell’alimento. Intuitivamente la carota ha un elevato IG, ma un basso CG.
Il CG si calcola in base all’IG con la semplice formula seguente:
CG = (IG x gr di carboidrati %) / 100
GL values were calculated as the product of the amount of available carbohydrate (non % ?) in a specified serving size and the GI value (using glucose as the reference food), divided by 100. (DIABETES CARE, VOLUME 31, NUMBER 12, DECEMBER 2008)
Riprendendo l’esempio delle carote: CG carote = (100 x 7,6) / 100 = 10
Quindi rivedendo la classificazione in base all’IG, si può completarla in questo mdo:
|
Indice Glicemico (IG) |
Carico Glicemico (CG) |
Basso |
< 55 |
< 10 |
Medio |
55-70 |
10-20 |
Alto |
> 70 |
> 20 |
Nonostante il Carico Glicemico sia più preciso rispetto all’IG, rimane comunque influenzato dagli stessi fattori che influenzano l’IG.
Pertanto, questi indicatori possono essere tenuti in considerazione per avere un’idea di come i singoli alimenti possono influenzare la risposta insulinica del nostro organismo, con la consapevolezza però che sono indicatori puramente teorici e che nella pratica quotidiana, all’interno di un pasto completo, l’impiego di piccole quote di zuccheri semplici non variano significativamente la risposta insulinica del nostro organismo.
Nonostante il Carico Glicemico sia più preciso rispetto all’IG, rimane comunque influenzato dagli stessi fattori che influenzano l’IG.
Pertanto, questi indicatori possono essere tenuti in considerazione per avere un’idea di come i singoli alimenti possono influenzare la risposta insulinica del nostro organismo, con la consapevolezza però che sono indicatori puramente teorici e che nella pratica quotidiana, all’interno di un pasto completo, l’impiego di piccole quote di zuccheri semplici non variano significativamente la risposta insulinica del nostro organismo.
Kilocalorie e aumento ponderale..
Contrariamente a quanto si sia creduto per lungo tempo, il fattore energetico (senza peraltro essere trascurabile) non è decisivo nell'aumento di peso.
Tutti gli studi epidemiologici hanno chiaramente dimostrato che non vi è una correlazione tra il livello di consumo calorico di una popolazione e la sua percentuale di obesità. È stato addirittura constatato che in numerosi casi vi è un'inversa correlazione.
Dal 1960 la media quotidiana di consumo calorico nei paesi occidentali è diminuita del 35% circa. Mentre nello stesso lasso di tempo la percentuale di obesità è aumentata del 400%.
Numerosi studi negli ultimi 25 hanno dimostrato che l’iperinsulinismo è sempre associato a un incremento ponderale e ad obesità. B. Jeanrenaud afferma che in tutte le forme di obesità siste un iperinsulinismo che è direttamente proporzionale all’indice di massa corporea.
In sintesi un eccesso di insulina si traduce in un aumento di peso e al contrario una diminuzione dell’insulinemia si traduce in una perdita di peso.
Queste evidenze suggeriscono quindi un alimentazione a basso indice glicemico si aper perdere peso sia per mantenerlo.
Non tutti i carboidrati sono uguali
Per lungo tempo i glucidi si pensavano essere intercambiabili. Questo ormai da tempo non è vero poiché i diversi glucidi non hanno gli stessi effetti metabolici. Inoltre è stata dimostrata la loro differete velocità di assorbimento. Da queste caratteristiche i glucidi sono stati suddivisi in base alla loro capacità di alzare o meno la glicemia: glucidi ad alto indice glicemico e a basso indice glicemico.
La resistenza all'insulina
Se una persona consuma in via eccezionale uno o più glucidi ad IG elevato, la secrezione d'insulina così provocata è sufficientemente efficace per far scendere la curva glicemica.
Ma se il consumo di glucidi ad IG elevato diventa un'abitudine, si assiste alla comparsa di una resistenza all'insulina (si parla anche di ridotta sensibilità all'insulina). Il glucosio infatti tarda, nonstante l'insulina, a uscire dal flusso sanguigno. È lo stadio dell'insulinoresistenza, che è particolarmente marcata nel caso del diabete di tipo II.
I ricettori dell''insulina, infatti, non funzionano più normalmente. Per questo motivo, l'insulina non è «riconosciuta correttamente» dalle cellule dei tessuti gluco-dipendenti, che non sono più correttamente informati della sua presenza. In questo modo la glicemia rimane alta in modo anomalo perchè il glucosio tarda a delocalizzarsi. Di fronte a tale inerzia, l'organismo si «spazientisce» e ordina al pancreas una nuova dose d'insulina che non fa che aggravare l'iperinsulinismo. Si crea così un vero e proprio circolo vizioso nel quale l'iperinsulinismo alimenta l'insulinoresistenza.
L'iperinsulinismo genera l'aumento di peso
Numerosi autori hanno descritto come una delle proprietà fondamentali dell'insulina sia quella di agire sul metabolismo dei grassi. Si tratta del fenomeno della lipogenesi.
- Stoccaggio degli acidi grassi in grassi di riserva
L'insulina, e a maggior ragione l'iperinsulinismo, stimola l'attività di un enzima: la lipo-lipasi. Bisogna sapere che questo enzima ha per funzione di mobilitare gli acidi grassi circolanti (che corrispondono agli acidi grassi consumati nel corso dell'ultimo pasto) per stoccarli sotto forma di trigliceridi, aumentando così il volume delle cellule grasse (adipociti).
- Inoltre l'insulina avrà per effetto l'inibizione diun altro enzima, il trigliceride-lipasi, responsabile della lipolisi, ossia del destoccaggio dei grassi di riserva (vedi più avanti).
- Stoccaggio del glucosio in grassi di riserva
Se la glicemia che segue il pasto è molto elevata è probabile che il glucosio corrispondente sia in eccedenza rispetto ai bisogni dell'organismo. L'iperinsulinismo che questa glicemia avrà generato avrà dunque come conseguenza, sotto l'impulso della proteina-lipasi, di trasformare tale glucosio residuo in grasso che sarà stoccato nelle cellule adipose.
L'iperinsulinismo è dunque la causa funzionale dell'aumento di peso!
Ma la domanda che è legittimo porsi è la seguente: "Cosa sarebbero diventati questi acidi grassi se non fossero stati stoccati per via della lipogenesi?".
La risposta è semplice, benchè sorprendente: se non fossero stati attivati dalla lipoproteina-lipasi (per via dell'insulina), questi acidi grassi sarebbero semplicemente stati utilizzati (bruciati) dall'organismo che, in queste circostanze, adegua in modo corretto il suo rendimento metabolico.
Il processo di dimagrimento (la lipolisi)
Come abbiamo appena visto la lipogenesi è il processo metabolico che porta alla costituzione di grassi di riserva, dunque all'aumento di peso. La lipolisi è esattamente il contrario: si tratta del processo metabolico che porta al destoccaggio dei grassi, quindi all'origine del dimagrimento.
L'organismo si trova in realtà in una situazione tale per cui preleva gli acidi grassi dalle cellule adipose (adipociti) per utilizzarli come carburante, diminuendone così il volume.
Affinchè ciò accada, è necessario che il livello di insulina sia basso. Il meccanismo è il seguente:
Un livello basso di insulina ha come conseguenza l'attivazione di un enzima, il trigliceride-lipasi, la cui funzione è di liberare gli acidi grassi dai tessuti adiposi (adipociti) riportandoli nel sangue affinchè possano essere utilizzati come carburante.
In seguito, l'organismo si sforzerà di utilizzarli (bruciarli) modificando per quanto necessario il loro rendimento energetico.
In conclusione, possiamo affermare che l'insulina è il catalizzatore dell'aumento di peso.
Di conseguenza, attraverso la gestione del livello d'insulina, facendo in modo che sia il più basso possibile, si innesca il processo di dimagrimento. E per riuscirvi occorrerà ovviamente limitare al minimo l'ampiezza glicemica del dopo pasto (post prandiale).
L'unica soluzione sarà ovviamente di consumare solo glucidi con un indice glicemico basso e addirittura molto basso.
L'esperienza ha dimostrato che, consumando esclusivamente glucidi con un indice glicemico inferiore o uguale a 35, la risposta insulinica è sufficientemente bassa da consentire l'attivazione dell'enzima dimagrante, il trigliceride-lipasi, e scatenare così la perdita di peso.
Il fattore determinante dell'aumento di peso è dunque effettivamente, come abbiamo appena visto, il consumo di glucidi a indice glicemico alto.
Il fenomeno della lipogenesi scoperto nel paragrafo precedente ci fa capire perchè e in quale modo. Allo stesso modo, scoprendo il fenomeno della lipolisi, si può capire come il fattore essenziale del dimagrimento sia il consumo di glucidi ad indice glicemico molto basso.
Ma realizziamo anche che l'aumento di peso non è solo il risultato dello stoccaggio dei grassi consumati nel corso del pasto. L'insulina agisce anche sul glucosio in eccedenza generato da un consumo eccessivo di glucidi ad indice glicemico alto.
Per lunghi anni, i nutrizionisti hanno creduto che il glucosio non potesse trasformarsi in grasso. Per questo motivo raccomandavano di consumare principalmente glucidi, affermando che questi non facevano ingrassare.
Mentre, come ha denunciato il Professor Walter WILLETT: «consigliando di eliminare i grassi e raccomandando di consumare glucidi i nutrizionisti hanno contribuito ad aumentare l'obesità». L'assenza d'indicazione in merito alla scelta dei glucidi, infatti, ha portato gli obesi a consumare in maggioranza glucidi con un indice glicemico alto. In questo modo, non solo scatenavano una secrezione d'insulina, ma generavano inoltre considerevoli quantità di glucosio in eccedenza non necessarie all'organismo, che venivano trasformate in grassi di riserva.
[1] Zuccheri, carboidrati, glucidi sono termini equivalenti utilizzati in modo assolutamente intercambiabile.
[2] http://nut.entecra.it/646/tabelle_di_composizione_degli_alimenti.html?idalimento=005150&quant=100
[3] K. Foster-Powell, J.B. Miller. 1995 International tables of glycemic index. Am.J.Clin.Nutr. 62:871S-90S
[4] http://www.vitalia-informa.it/wp-content/uploads/2015/09/Tabella-Indici-glicemici.pdf
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